Pubblicato in Sentenze 14/02/2012
Biancamaria Consales
Così ha deciso la Corte di Cassazione con sentenza n. 2013 del 13 febbraio 2012, pronunciandosi su di un ricorso proposto da una lavoratrice, cui era stato intimato il licenziamento. In particolare il datore di lavoro contestava l’esecuzione della prestazione, non accurata e conforme a quanto dettato dal codice disciplinare aziendale.
Si difendeva la lavoratrice sostenendo, innanzitutto la mancata affissione del codice disciplinare in azienda ai sensi dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori ed inoltre la tardiva contestazione della condotta che aveva spinto il datore di lavoro al licenziamento.
I giudici di Piazza Cavour hanno preliminarmente premesso che il principio di tassatività degli illeciti disciplinari non può essere inteso in senso rigoroso, al pari di quanto avviene per gli illeciti penali ai sensi dell’art. 25, secondo comma della Costituzione, dovendosi distinguere tra illeciti relativi alla violazione di prescrizioni strettamente inerenti all’organizzazione aziendale, per lo più ignote alla collettività e quindi conoscibili solo se espressamente previste nel codice disciplinare, da affiggere ai sensi dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori e comportamenti incompatibili con le fondamentali regole del vivere civile o manifestamente contrari agli interessi dell’impresa o dei lavoratori o che implicano la violazione dei doveri fondamentali che qualificano la prestazione di lavoro. In tali ultimi casi, il disvalore del comportamento del lavoratore non solo è immediatamente percepibile dallo stesso, ma è sanzionabile in via diretta dalla legge, per determinare l’insorgere di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, senza necessità di alcuna specifica e predeterminata forma di pubblicità.
L’inadempimento – hanno affermato i giudici – può essere idoneo a giustificare il licenziamento in ogni comportamento che, per la sua gravità sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali. Quel che è veramente decisivo ai fini della valutazione della proporzionalità tra addebito e sanzione è, però, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni della correttezza e della buona fede.
Ne deriva che la proporzionalità della sanzione non può essere valutata solo in conformità alla funzione dissuasiva che la stessa sia destinata ad esercitare sul comportamento degli altri dipendenti, dal momento che il principio di proporzionalità implica un giudizio di adeguatezza discrezionale e cioè calibrato sulla gravità della colpa e sull’intensità della violazione della buona fede contrattuale.
La sanzione irrogata, nella fattispecie, è apparsa non proporzionata, dovendosi al riguardo ribadire che il grave inadempimento degli obblighi contrattuali, che costituisce il presupposto della nozione legale di giusta causa, risulta incompatibile con il comportamento del lavoratore che, per l’esistenza di una prassi aziendale nota al datore di lavoro, è insuscettibili di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e di determinare la lesione irreparabile del vincolo fiduciario che ispira la relazione di lavoro.