Se il dipendente si trova a lavorare in una situazione costante di stress a causa dei comportamenti ostili dei superiori, deve essergli risarcito il danno da straining, e non da mobbing, se trattasi di vessazioni saltuarie e prive del requisito della continuità.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, sezione lavoro, nella sentenza n. 3291/2016 occupandosi del caso di una dipendente di un’Azienda Ospedaliera che aveva agito in giudizio per vedersi risarcire il danno da demansionamento e da mobbing.
In sede di gravame, era stata respinta la prima domanda e confermato invece il diritto al risarcimento dei danni in relazione ad una situazione di stress lavorativo subito dalla dottoressa facendo richiamo alla responsabilità ex art. 2087 c.c. secondo cui “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Il danno da dimensionamento veniva escluso dal giudicante in quanto non emergeva alcun danno alla professionalità della donna, incaricata quale responsabile di una struttura, benché nel primo periodo successivo al trasferimento vi fossero state indubbie difficoltà logistiche e organizzative.
Quanto all’ipotizzato mobbing, la Cassazione condivide la sentenza appellata laddove ha escluso che la riorganizzazione del reparto sia stata finalizza a danneggiare la dottoressa, il cui impegno part-time limitava, di fatto le mansioni che le potevano essere affidate. Allo stesso tempo ha dato risalto al fatto a due episodi: uno in cui il primario ha reagito con un atteggiamento aggressivo culminato nel gesto di stracciare la relazione di consulenza della ricorrente che avrebbe dovuto essere allegata a una cartella clinica e l’altro di mancata consegna da parte dello stesso primario della scheda di valutazione della dottoressa.
Si tratta di episodi che non possono aver dato luogo a un vero e proprio mobbing, mancando l’elemento della oggettiva frequenza della condotta ostile, al di la della percezione soggettiva della dottoressa di una situazione di costante emarginazione.Ma ciò non toglie che la lavoratrice possa ottenere il risarcimento sotto altro profilo: lo straining.
Lo straining rappresenta una forma attenuata di mobbing, nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie, come può accadere ad esempi in caso di demansionamento, dequalificazione, isolamento o privazione degli strumenti del lavoro.
In tutte le suddette ipotesi, se la condotta nociva si realizza con una azione unica e isolata o comunque in più azioni, ma prive di continuità si è in presenza dello straining che può sempre produrre una situazione stressante, la quale a sua volta può anche causare gravi disturbi psico-somatici o anche psico-fisici o psichici.
Mancando nel caso di specie il requisito della continuità nel tempo della condotta, essa può essere sanzionata in sede civile sempre applicando l’art. 2087 c.c., ma può dar luogo anche a fattispecie di reato se ne ricorrono i presupposti.
La Corte d’Appello non ha violato in principio tra il chiesto e in pronunciato qualificando la condotta di mobbing quale straining, in quanto ha lasciato inalterato sia il petitum che la causa petendi e non ha attribuito un bene diverso da quello demandato, o ha introdotto nuovi elemento di fatto.
La somma riconosciuta alla dottoressa, inoltre, viene riconosciuta dalla Cassazione come congrua e non esorbitante: la liquidazione rispecchia esattamente la misura della sofferenza patita e il danno psichico permanente subito dalla dottoressa senza che questo comporti alcuna duplicazione di voci di danno.
Fonte: Studio Cataldi