Intervento eseguito senza consenso: i benefici non compensano la perdita del diritto alla scelta di trattamenti meno demolitori

Corte di Cassazione – Civile Sent. n. 12205 del 12.06.2015  (Intervento eseguito senza consenso: i benefici non compensano la perdita del diritto alla scelta di trattamenti meno demolitori)

24.06.2015 – Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma – atteso il principio personalistico che anima la nostra Costituzione (la quale vede nella persona umana un valore etico in sè e guarda al limite del “rispetto della persona umana” in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofìche che orientano le sue determinazioni volitive) e la nuova dimensione che ha assunto la salute (non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sè, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza) – altresì di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale”.

La circostanza che l’intervento medico non preceduto da acquisizione di consenso sia stato, in ipotesi, risolutivo della patologia che il paziente presenta non risulta idonea di per sè ad eliminare i danni conseguenza.

Il beneficio tratto dall’esecuzione dell’intervento in queste ipotesi non “compensa” la perdita della possibilità di eseguirne uno meno demolitorio e nemmeno uno che, se eseguito da altri, avrebbe provocato meno sofferenza. Qualora l’intervento eseguito si riveli l’unico possibile e, quindi, che, se fosse stato eseguito altrove o successivamente, esso avrebbe dovuto avere identica consistenza ed identici effetti, la verificazione del beneficio derivante dalla sua esecuzione in ogni caso non potrebbe in alcun modo compensare almeno la “perdita” della possibilità di scegliere di non sottoporsi all’intervento. Possibilità che è preservata dal diritto al consenso informato.

[Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]


Cassazione Civile – Sez. III; Sent. n. 12205 del 12.06.2015

omissis

Svolgimento del processo

p.1. D.S.S. ha proposto ricorso per cassazione contro l’Azienda A.U.S.L. di Chieti, B.U., R. G. e C.F., nonchè contro la Unipol Assicurazioni s.p.a. (incorporante per fusione l’Aurora Assicurazioni s.p.a., già Siad Ass.ni. s.p.a.) e la Sara Assicurazioni s.p.a., l’Assitalia – Le Assicurazioni d’Italia s.p.a., la Milano Assicurazioni s.p.a., la s.p.a. Reale Mutua Assicurazioni, la Zurigo Assicurazioni s.p.a., la Assicurazioni Generali s.p.a. e la Lloyd Adriatico s.p.a., avverso la sentenza del 13 settembre 2011, con la quale la Corte d’Appello di L’Aquila ha rigettato il suo appello contro la sentenza resa in primo grado inter partes dal Tribunale di Chieti il 3 marzo 2004 sulla controversia introdotta da essa ricorrente nel dicembre del 1997 per ottenere il risarcimento dei danni a suo dire sofferti in occasione di un intervento chirurgico cui si era sottoposta il 24 novembre 1995 presso l’Ospedale di Chieti.

p.2. La domanda era stata proposta contro la struttura sanitaria, il B. quale direttore del reparto di ginecologia del detto ospedale e capo dell’equipe che aveva eseguito l’intervento, il R. ed il C. quali assistenti all’intervento, nonchè contro altri tre medici, nei confronti dei quali il ricorso non è stato proposto.

2.1. Nella sua prospettazione l’attrice deduceva che l’intervento chirurgico che era stato programmato presso la struttura sanitaria convenuta per l’asportazione di una cisti ovarica destra e per il quale aveva prestato il consenso, si era esteso, d’iniziativa del dottor B. e durante la sua esecuzione, ad una laparatomia, una isterectomia totale, una anessectomia bilaterale, una appendicectomia ed omentectomia. Ciò, in ragione della evidenziazione, nelle more dell’intervento originario, da parte di un anatomapatologo all’uopo richiesto di un esame istologico, di una diagnosi di presenza di un adenocarcinoma, presenza poi confermata da successivi esami bioptici.

L’attrice esponeva, tuttavia, che successivamente, essendosi recata in Francia presso altro nosocomio, le era stata fornita una diversa diagnosi di presenza di un tumore benigno c.d. in ragione di ciò lamentava i gravissimi danni a suo dire sofferti per gli interventi demolitori subiti, evocando la responsabilità dei componenti dell’equipe operatoria e della struttura sanitaria, nonchè degli altri sanitari che avevano eseguito l’esame istologico estemporaneo e quelli bioptici.

2. Con la sentenza di primo grado il Tribunale di Chieti, nella contumacia dei convenuti ad eccezione dell’A.U.S.L. e del C., nonchè nel contraddittorio delle società assicuratricì chiamate dai convenuti in garanzia, istruita la causa con l’espletamento di c.t.u. medica e acquisiti documenti, rigettava la domanda, escludendo – sulla base della c.t.u., la quale aveva accertato che la diagnosi del nosocomio francese in realtà era stata di rilevazione di un tumore maligno di natura diversa, ma che comunque avrebbe giustificato l’estensione dell’intervento operatorio nei termini in cui era avvenuta – la sussistenza di profili di responsabilità professionale dei vari convenuti ed anche la configurabilità di una responsabilità per la violazione dell’obbligo del consenso informato.

3. La Corte aquilana, investita nel merito di un motivo di appello in ordine all’esclusione della responsabilità a motivo del carattere dovuto e risolutivo per la salute del’attrice dell’estensione dell’intervento chirurgico e di altro motivo di gravame riguardo all’esclusione della responsabilità per violazione del consenso informato, li ha rigettati entrambi.

4. Al ricorso per cassazione della D.S. ha resistito con controricorso soltanto l’A.U.S.L. di Chieti.

5. Ha depositato memoria la resistente.

Motivi della decisione

p.1. Con il primo motivo di ricorso – che concerne il rigetto del secondo motivo di appello inerente il consenso informato – si deduce “falsa applicazione dell’art. 329 c.p.c., nonchè omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5″.

Vi si lamenta che erroneamente la Corte territoriale avrebbe ritenuto che la ricorrente avesse fatto acquiescenza alla motivazione della sentenza di primo grado sull’esclusione della responsabilità per violazione dell’obbligo del consenso informato.

La motivazione da cui risulterebbe l’erronea affermazione dell’acquiescenza si rinverrebbe nel passo in cui la Corte aquilana, dopo avere riferito del motivo di appello, ha osservato – alla pagina 23 – quanto segue: “in primo luogo deve ribadirsi ìosservazione già correttamente formulata dal Giudice di primo grado e non censurata dall’appellante che l’accertamento della violazione dello specifico obbligo in esame costituisce un posterius logico rispetto all’accertamento del rapporto di causalità tra la condotta dei sanitari e il pregiudizio lamentato dalla paziente. Di conseguenza poichè nella vicenda in esame il nesso causale tra il pregiudizio logico e morale sofferto e l’asserita colposa condotta professionale deve essere recisamene escluso, nessuna rilevanza può attribuirsi all’eventuale violazione di previa acquisizione di consenso”.

p.1.1. Il motivo è gradatamente inammissibile e privo di fondamento.

L’inammissibilità discende dal fatto che, pur ammettendo che nel passo motivazionale la sentenza impugnata abbia evocato effettivamente il concetto di acquiescenza e ne abbia fatto in concreto applicazione, l’art. 366 c.p.c., n. 6, imponeva alla ricorrente di indicare, riproducendola direttamene od indirettamente, mediante rinvio alla parte della sentenza di primo grado in cui l’indiretta riproduzione troverebbe rispondenza, la parte di motivazione della sentenza stessa che si era espressa nel senso ipotizzato dalla sentenza di appello e, quindi, di evidenziare come e dove, attraverso la sua evocazione, essa era stata criticata nell’atto di appello.

Viceversa, nell’illustrazione del motivo non si svolge tale attività, ma si riproduce (p. 14, in corsivo) un passo dell’atto di appello nel quale non si fa alcun riferimento alla motivazione della sentenza di primo grado. Ne consegue che non emerge in alcun modo che esso fosse correlato alla questione su cui vi sarebbe stata la pretesa acquiescenza.

1.2. Il motivo, tuttavia, è anche privo di fondamento, perchè in realtà l’affermazione della sentenza impugnata in cui si è colta un’erronea valutazione di acquiescenza (cioè quella che allude alla “osservazione già correttamente formulata dal Giudice di primo grado e non censurata dall’appellante”) – in disparte il rilievo che non evocando la sentenza in alcun modo l’art. 329 c.p.c., e non usando essa nemmeno l’espressione “acquiescenza” non v’è alcun indice espresso di valutazione ai sensi di detta norma – non ha oggettivamente quel valore.

Infatti, immediatamente di seguito al passo riportato, la sentenza impugnata si diffonde nelle ultime tre righe della pagina 23 e fino alla terzultima riga della pagina successiva a sostenere l’esattezza della valutazione della rilevanza della lesione del consenso informato in termini tali che, se ex posi l’intervento non assentito del primo giudice si riveli scelta terapeutica corretta, detta lesione non avrebbe rilievo come fonte di danno. Ebbene, ciò evidenzia che la sentenza di appello ha motivato nel merito sul problema della violazione del consenso informato come fonte di danno, sicchè l’affermazione nella quale si è vista un’applicazione della nozione di acquiescenza in realtà non risulta assolutamente interpretabile in quel senso.

p.2. Con un secondo motivo si deduce “violazione del diritto al consenso informato e del conseguente danno alla salute di cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost., della L. 23 dicembre 1978, n. 833, art. 33, nonchè insufficiente motivazione e ciò in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5″.

Vi si censura la motivazione della sentenza impugnata, innanzitutto là dove, confermando la valutazione della sentenza di primo grado sottoposta a critica con il secondo motivo di appello, avrebbe erroneamente negato la violazione del diritto della ricorrente al consenso informato ed in particolare di prestare un nuovo consenso rispetto a quello a suo tempo fornito, in ordine al diverso sviluppo assunto dall’intervento chirurgico durante la sua esecuzione.

p.2.1. La motivazione sottoposta a critica sotto tale profilo è enunciata dalla Corte territoriale dopo avere disatteso il primo motivo di appello ed avere conclusivamente ritenuto, come aveva già fatto il primo giudice sulla scorta della c.t.u., che “la prestazione sanitaria era stata eseguita con diligenza, prudenza e perizia, non essendovi alternative all’intervento chirurgico prescelto ed essendo stato lo stesso condotto con esito pienamente positivo, consistente nella totale guarigione della paziente”.

Essa inizia con il passo che si è già sopra riportato nell’esaminare il motivo precedente e, quindi continua in questi termini: “Invero, alla luce di quanto sopra evidenziato, deve ribadirsi che l’intervento chirurgico praticato dai sanitari italiani sulla D.S., non solo si era rivelato, ex ante, l’unica scelta terapeutica possibile alla luce delle risultanze degli esami di laboratorio praticati contestualmente successivamente allo stesso, ma si era altresì rivelato, ex posi, particolarmente efficace, consentendo, unitamente al successivo intervento praticato dai medici francesi, la totale eliminazione del male e la piena guarigione della paziente. Il pregiudizio morale e biologico, consistente nella sofferenza connessa all’intervento e nella perdita della capacità riproduttiva, costituiscono il doloroso e consapevole sacrificio reso necessario dall’esigenza di prevenire un danno peggiore ed irreparabile ed integrano gli ineluttabili effetti collaterali di una scelta terapeutica assolutamente obbligata.

Essi non possono essere considerati, pertanto, la conseguenza dannosa immediata e diretta della condotta inadempiente dei sanitari (cfr.l’art. 1223 c.c.), la quale era invece consistita nella diligente corretta esecuzione della l prestazione oggetto dell’obbligazione professionale ed aveva avuto quale effetto l’auspicata eliminazione della patologia della guarigione della paziente, con obiettivo soddisfacimento dell’interesse creditorio di quest’ultima. Si conferma, dunque, l’irrilevanza della questione relativa alla preventiva richiesta del consenso, in quanto, esclusa la sussistenza dei presupposti obiettivi o materiali della responsabilità professionale, non assume importanza la valutazione, logicamente e cronologicamente conseguente, dell’elemento soggettivo o spirituale dell’illecito, nel cui ambito rientra il non corretto adempimento dell’obbligo di informazione e di conseguente acquisizione del consenso (cfr. Cass. 18 aprile 2005 n. 7997)”.

p.2.2. La critica alla riportata motivazione viene svolta con i seguenti argomenti: a) la sentenza impugnata avrebbe confuso il diritto al consenso informato ed il diritto alla salute, mentre il primo, secondo la giurisprudenza di questa Corte (vengono citate Cass. n. 10741 del 2009 e n. 18513 de 2007) e come, del resto, avrebbe riconosciuto alla stregua degli artt. 2, 13 e 32 Cost., anche la Corte costituzionale nella sentenza n. 438 del 2008, sarebbero un diritto distinto ancorchè sintesi del diritto autodeterminazione ed alla salute; b) l’autonomia della necessità del paziente di essere reso edotto del percorso terapeutico, del resto, sarebbe stata riconosciuta da varie fonti legislative, come la L. n. 219 del 2005, art. 3, la L. n. 40 del 2004, art. 6, e la L. n. 833 del 1978, art. 33, così come dal Codice di deontologia medica, il cui art. 29 sancisce che “il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito ed informato del paziente”; c) detta autonomia evidenzierebbe l’errore della Corte aquilana, perchè il diritto della ricorrente “di decidere in ordine alla propria salute di scegliere se autorizzare o meno – e per mani di chi – l’esecuzione di specifici trattamenti sanitari” sarebbe “il riflesso immediato ed ineliminabile del diritto all’autodeterminazione”, che sarebbe necessariamente comprensivo “anche del suo simmetrico opposto, ovvero quello di non autorizzali o di autorizzarli a certe condizioni come, del pari, di esercitare, a titolo di corollario, la prerogativa di scegliere struttura e medici a fini operatori”; d) di conseguenza la circostanza che il trattamento sanitario praticato possa aver avuto buon esito non esimerebbe dalla responsabilità per la violazione del diritto al consenso informato, come, del resto, avrebbe riconosciuto questa Corte nella sentenza n. 2847 del 2010.

p.2.3. L’illustrazione del motivo sottopone, poi, a critica l’ulteriore motivazione con cui la Corte territoriale si è così espressa immediatamente di seguito a quella sopra censurata, osservando quanto segue: “Per completezza di motivazione, può peraltro osservarsi che la violazione dell’obbligo in esame non appare neppure sussistente, atteso che dal documento sottoscritto dalla D.S. in data 23 novembre 1995 risulta, come già evidenziato dal giudice di prime cure, che la paziente non solo aveva consentito a sottoporsi all’intervento chirurgico per asportazione di cisti ovarica destra, ma che aveva anche prestato ulteriore consenso ad un’eventuale modifica del suddetto intervento qualora ciò si fosse reso necessario per la tutela della sua salute. La presenza di tale documento, ancorchè acquisito su produzione della stessa appellante (attrice in primo grado), consente, per il sufficiente grado di specificità da cui è connotato, di reputare adempiuto l’onere (spettante in capo ai convenuti in ragione del carattere contrattuale della responsabilità professionale del medico) di provare l’esatto adempimento della loro obbligazione, sicchè la sussistenza della paventata violazione, a prescindere dalla rilevanza in concreto di esso, risulta, nel caso di specie, per sino smentita”.

La critica viene svolta innanzitutto evidenziando che l’intervento chirurgico eseguito si era evoluto in una direzione ed aveva assunto caratteristiche demolitorie del tutto estranee all’intervento di asportazione di una cisti ovarica destra, che era stato oggetto del consenso informato reso preventivamente il 23 novembre 1995, sì che esso si era collocato del tutto al di fuori di quanto oggetto di tale consenso. In secondo luogo si critica, riproducendo il contenuto del documento, l’affermazione che detto consenso fosse sufficientemente specifico e ciò tanto nel riferimento alla conoscenza da parte della D.S. “per esserne stata esaurientemente infirmata” degli “intenti, estensione e rischi” dell’intervento autorizzato, quanto per la parte in cui la medesima acconsentì “inoltre, ad un’eventuale modifica del suddetto intervento qualora ciò fosse necessario per la tutela della sua salute”. Si assume ancora, che comunque gli intenti, l’estensione e i rischi cui la dichiarazione di manifestazione del consenso fece riferimento avrebbero potuto essere solo quelli relativi all’esecuzione dell’intervento di asportazione della cisti ovarica e non quelli totalmente diversi e ben più devastati poi eseguiti.

Si argomenta ancora, evocando Cass. n. 16543 del 2011, che “la mancata preventiva acquisizione del consenso informato della ricorrente sottoposta, in stato di anestesia, ad intervento chirurgico diverso da quello da lei autorizzato non si configurava come urgente onde esso non poteva trovare legittimazione neanche sotto tale angolazione giuridica”. Infatti, la diagnosi discendente dagli accertamenti anatomo-patologici eseguiti nella contestualità dell’intervento era stata espressa in termini di “K ovarico bilaterale”, come emergeva dalla cartella clinica allegata alla citazione introduttiva del giudizio e precisamente dal foglio intitolato “Atto operatorio). Si trattava di diagnosi di patologia grave ma non tale da mettere “nell’immediato a rischio di vita la paziente” sì che “imponesse di attuare indifferibili interventi di emergenza” e tale valutazione era stata fatta anche dal c.t.u. che nei numeri 7 e 8 della sua relazione aveva affermato che “al momento (dell’intervento) non vi era pericolo immediato di morte della paziente, perciò non ci si trovava di fronte ad una urgenza in atto” e che “si sarebbe potuto differire l’intervento di qualche giorno, onde rendere edotta la paziente sulla diagnosi e sulla prognosi della sua malattia, ma non sulle alternative terapeutiche dato che non ne esistono diverse dal tipo di intervento chirurgico a cui è stata sottoposta. La paziente, inoltre, avrebbe potuto scegliere un centro di riferimento specialistico per l’oncologia ginecologica”.

Tanto evidenzierebbe ulteriore erroneità della sentenza impugnata, in quanto la mancata doverosa acquisizione di un nuovo consenso alla divisata evoluzione dell’intervento da parte dell’equipe sanitaria non si sarebbe potuta giustificare neppure per ragioni di urgenza.

p.2.4. Il motivo è fondato nei vari passaggi in cui si articola.

Queste le ragioni.

p.2.4.1. La motivazione della sentenza impugnata risulta errata in ture già nella parte in cui, partendo dal rilievo – che come si vedrà sarà, peraltro, parzialmente messo in crisi quanto ad uno dei suoi elementi dall’esame del quinto motivo – che “la prestazione sanitaria era stata eseguita con diligenza, prudenza e perizia, non essendovi alternative all’intervento chirurgico prescelto ed essendo stato lo stesso condotto con esito pienamente positivo, consistente nella totale guarigione della paziente” e dopo essersi posta nell’ottica che effettivamente fosse mancato un consenso informato allo sviluppo assunto dall’intervento chirurgico, ha affermato che, poichè tanto sulla base di un apprezzamento ex ante quanto ex posi, l’estensione dell’intervento, peraltro eseguito anche correttamente, si era rivelata non solo l’unica scelta terapeutica possibile, ma anche, all’esito della sua esecuzione, una scelta determinante – peraltro, si dice, unitamente all’intervento dei medici francesi – l’eliminazione dello stato patologico costituito dal tumore, per tale ragione sarebbero stati irrilevanti il pregiudizio morale e biologico, rispettivamente consistenti nella sofferenza connessa all’intervento estensivo e nella perdita, in conseguenza della sua esecuzione, della capacità riproduttiva. Ciò, in quanto essi sarebbero stati giustificati dall’esigenza di prevenire un danno maggiore ed irreparabile e rappresenterebbero come tali un effetto collaterale di una scelta terapeutica non solo obbligata, ma anche risolutiva della patologia.

Il senso di tale motivazione sembrerebbe potersi esprimere nel seguente principio: quando il medico, senza previa acquisizione del consenso informato e, naturalmente in situazione in cui tale acquisizione sarebbe stata sarebbe possibile, esegue correttamente sul paziente un intervento chirurgico, che ex ante appaia necessitato sul piano terapeutico ed expost si riveli anche risolutivo della patologia che il paziente presentava, la lesione alla libertà di determinazione del paziente cagionata dalla mancata acquisizione del consenso, si dovrebbe considerare inidonea a determinare un danno risarcibile. Poichè i danni risarcibili, nel caso di illecito contrattuale ed extracontrattuale sono individuati dall’art. 1223 c.c., (richiamato dal’art. 2056 c.c.) questa affermazione sottende il convincimento che in una simile evenienza la violazione del diritto al consenso informato non cagionerebbe nè quello che la norma definisce “perdita”, nè quello che la norma definisce “lucro cessante”. E ciò perchè detta lesione sarebbe giustificata dal vantaggio conseguito dal paziente con l’eliminazione della patologia.

E’ quanto dire che, assumendo la prospettiva che si esprime nel concetto, caro ad altre culture giuridiche, ma non estraneo oramai alla nostra, di c.d. costi-benefici, l’attività medico-chirugica – ma il discorso si dovrebbe per coerenza estendere a tutta la pratica dell’attività medica che si risolva in interventi sulla persona del paziente senza acquisizione di consenso informato – non potrebbe ritenersi determinativa di un danno, qualora si riveli “utile” per il paziente, nel senso che, all’esito della sua esecuzione, le condizioni del paziente rispetto alla patologia che presentava si rivelino migliori (nel senso dell’eliminazione dell’incidenza che la patologia avrebbe altrimenti avuto sulla persona del paziente ed ancorchè l’intervento abbia comunque inciso sullo stato pscico- fisico del paziente).

p.2.4.2. Questo assunto non è in alcun modo condivisibile ed appare frutto di una non corretta percezione della struttura della fattispecie di illecito, sia esso contrattuale o extracontrattuale, che si ricollega all’esecuzione, da parte di un medico sulla persona del paziente, senza la previa acquisizione del suo consenso informato, di un intervento pur costituente esercizio dell’attività medica.

L’assunto della Corte aquilana si pone in sostanza in contrasto con il profilo strutturale della lesione del diritto al consenso informato, o meglio de diritto ad essere informati sulla direzione dell’attività medica sulla propria persona ed a consentirla, all’esito dell’informazione, prestando il consenso, che in tal modo risulta espresso sulla base della conoscenza da parte del paziente delle implicazioni, dei rischi e delle conseguenze dell’attività stessa e, quindi, esprime un atto di disposizione della propria persona in senso psico-fisico risalente ad una volontà del paziente consapevole.

In proposito, occorre rilevare innanzitutto che la struttura di tale illecito deve essere ricostruita sulla base della necessaria distinzione, di rilievo generale in tema di fatto illecito civile, contrattuale o extracontrattuale, fra l’individuazione dell’evento che lo integra (c.d. danno-evento) e quella delle sue conseguenze dannose (c.d. danno conseguenza), che far sorgere il diritto alla riparazione, id est al risarcimento. Distinzione la cui generalità èstata, com’è noto, riaffermata dalle SS.UU. nelle c.d. sentenze di San Martino (Cass. sez. un. n. 26972 del 208 e le altre tre gemelle).

Sotto il primo profilo la lesione del diritto ad esprimere il c.d.

consenso informato da parte del medico si verifica per il sol fatto che egli tenga una condotta che lo porta al compimento sulla persona del paziente (in ipotesi anche senza un’ingerenza fisica, potendo trattarsi di atti medici che si risolvano in una intromissione nella sfera psico-fisica del paziente ed assumano quindi efficienza su di essa senza alcuna materialità, cioè anche soltanto tramite attività persuasiva costituente atto medico, come nel caso dell’intervento eseguito da un medico psichiatra) di atti medici senza avere acquisito il suo consenso.

Il c.d. danno evento cagionato da tale condotta è, sotto tale profilo, rappresentato dallo stesso estrinsecarsi dell’intervento sulla persona del paziente senza la previa acquisizione del consenso, cioè, per restare al caso dell’intervento chirurgico, dall’esecuzione senza tale consenso dell’intervento sul corpo del paziente. Il danno-evento in questione risulta, dunque, dalla tenuta di una condotta omissiva seguita da una condotta commissiva.

p.2.4.3. Il danno conseguenza, quello che l’art. 1223 c.c., indica come perdita o mancato guadagno, è, invece, rappresentato dall’effetto pregiudizievole che la mancanza dell’acquisizione del consenso e, quindi, il comportamento omissivo del medico, seguito dal comportamento positivo di esecuzione dell’intervento, ha potuto determinare sulla sfera della persona del paziente, considerata nella sua rilevanza di condizione psico-fisica posseduta prima dell’intervento, la quale, se le informazioni fossero state date, l’avrebbe portata a decidere sul se assentire la pratica medica.

Un primo effetto è intuitivo: poichè l’informazione sull’atto medico da eseguirsi e sulle sue conseguenze, una volta data al paziente, avrebbe posto costui nella condizione di decidere se autorizzare o non autorizzare il medico all’esecuzione dell’intervento proposto e poichè tra i contenuti possibili concreti che l’esercizio di tale potere di determinazione può assumere vi può essere sia la scelta di restare nelle condizioni che secondo il medico imporrebbero l’intervento anche se pregiudizievoli (se del caso anche usque ad supremumexitwn), sia la scelta di riflettere e di determinarsi successivamente, sia e soprattutto quella di rivolgersi altrove, cioè ad altro medico, prima di determinarsi, è palese che un effetto della condotta di omissione dell’informazione seguita dall’esecuzione dell’atto medico, che integra danno conseguenza, si individua nella preclusione della possibilità di esercitare tutte tali opzioni.

Preclusione che integra danno conseguenza perchè si concreta nella privazione della libertà del paziente di autodeterminarsi circa la sua persona fìsica. Libertà che, costituendo un bene di per sè, quale aspetto della generica libertà personale, viene negata e, quindi, risulta sacrificata irrimediabilmente, sì che si configura come “perdita” di un bene personale.

Nel caso di atto medico costituito da intervento chirurgico si verificano, peraltro secondo un criterio di assoluta normalità, anche ulteriori danni conseguenza.

Si tratta:

a) della sofferenza e della contrazione della libertà di disporre di sè stesso, psichicamente e fisicamente, patite dal paziente in ragione dello svolgimento sulla sua persona dell’esecuzione dell’intervento durante la sua esecuzione e nella relativa convalescenza;

b) della diminuzione che lo stato del paziente subisce a livello fisico per effetto dell’attività demolitoria, che abbia eliminato, sebbene a fini terapeutici, parti del corpo ed eventualmente le funzionalità di esse: poichè tale diminuzione avrebbe potuto verificarsi solo se assentita sulla base dell’informazione dovuta e si è verificata in mancanza di essa si tratta di conseguenza oggettivamente dannosa, che si deve apprezzare come danno conseguenza indipendentemente dalla sua utilità rispetto al bene della salute del paziente, che è bene diverso dal diritto di autodeterminarsi rispetto alla propria persona, ancorchè in modo di riflesso incidente sul bene della salute.

Non solo: con riferimento alla possibilità che, se il consenso fosse stato richiesto, la facoltà di autodeterminazione avrebbe potuto indirizzarsi nel rivolgersi per l’intervento medico altrove, qualora si riveli che sarebbe stata possibile in relazione alla patologia l’esecuzione di altro intervento vuoi meno demolitorio vuoi anche solo determinativo di minore sofferenza, si verifica anche un danno conseguenza rappresentato da vere e proprie “perdita”, questa volta relative proprio ad aspetti della salute del paziente.

p.2.4.4. Tanto chiarito, risulta evidente che la circostanza che l’intervento medico non preceduto da acquisizione di consenso sia stato, in ipotesi, risolutivo della patologia che il paziente presenta non è idonea di per sè ad eliminare i danni conseguenza così individuati.

Ciò è di tutta evidenza nel caso delle perdite di cui s’è appena detto. E’ infatti palese che il beneficio tratto dall’esecuzione dell’intervento in queste ipotesi non “compensa” la perdita della possibilità di eseguirne uno meno demolitorio e nemmeno uno che, se eseguito da altri, avrebbe provocato meno sofferenza.

Ma è non meno evidente che, anche qualora l’intervento eseguito si riveli l’unico possibile e, quindi, che, se fosse stato eseguito altrove o successivamente, esso avrebbe dovuto avere identica consistenza ed identici effetti, la verificazione del beneficio derivante dalla sua esecuzione in ogni caso non potrebbe in alcun modo compensare almeno la “perdita” della possibilità di scegliere di non sottoporsi all’intervento. Possibilità che è preservata dal diritto al consenso informato.

Non solo:, quando pure l’intervento eseguito fosse stato l’unico possibile e, tuttavia, la situazione non fosse stata tale che, per avere esso esito favorevole e risolutivo della patologia, la sua esecuzione avesse dovuto seguire in tempi ristretti e tali da non consentire uno spatium deliberarteli finalizzato all’acquisizione, da parte del paziente, di ulteriori informazioni sulla sua effettiva indispensabilità ed anche in funzione dell’indirizzarsi altrove per la sua esecuzione, la stessa circostanza che al paziente sia rimasta preclusa la possibilità di fruire di tali possibilità e, quindi, anche di beneficiare dell’apporto positivo che la loro fruizione avrebbe avuto sul grado di predisposizione psichica a subire l’intervento e le sue rilevanti conseguenze, si configura come danno conseguenza che in alcun modo è eliso dall’esito positivo dell’intervento: la preclusione di tali possibilità di autodeterminarsi e di beneficiare della diminuzione della sofferenza psichica conseguente all’autodeterminazione in alcun modo risultano compensate dall’esito favorevole dell’intervento. La ragione è di tutta evidenza: tale esito favorevole avrebbe potuto comunque essere conseguito all’esito di una situazione psichica del paziente, che, in quanto determinata dalla constatazione che anche altrove le si consigliava lo stesso intervento e che, dunque, esso si presentava veramente ineluttabile, meglio sarebbe stata predisposta ad accettare le conseguenze demolitorie dell’intervento. Detta situazione psichica risulta ben diversa da quella in cui il paziente si viene a trovare “a sorpresa” ex post soltanto quando constata gli effetti dell’intervento eseguito senza il suo consenso informato e si domanda se si sarebbe potuto fare altrimenti e se egli stesso avrebbe potuto scegliere diversamente, compresa la possibilità di non fare. Si tratta di situazione psichica mancata che nel suo oggettivo carattere dannoso non è in alcun modo eliminata: ciò per l’assorbente ragione che l’esito favorevole dell’intervento avrebbe potuto dispiegare i suoi effetti anche se quella situazione si fosse potuta verificare, onde il danno derivante dal fatto che essa è stata impedita, non risulta in alcun modo inciso.

p.2.5. Le svolte considerazioni evidenziano allora l’erroneità della sentenza impugnata là dove ha attribuito all’esito risolutivo della patologia dell’intervento eseguito il valore di elidere la lesione del diritto al consenso informato.

L’elisione di tale lesione è frutto della mancata percezione in iure dell’esatta consistenza della fattispecie astratta di violazione del diritto al consenso informato con riferimento alla struttura del relativo illecito ed alla distinzione fra danno evento e danno conseguenza ad essa riferibili.

Alla stregua del ragionamento svolto dalla corte aquilana ogni intervento medico eseguito senza previa acquisizione del consenso informato, pur possibile (e con ciò, naturalmente, si vuole escludere la problematica degli interventi eseguiti in situazione in cui l’acquisizione del consenso non è possibile per lo stato di incoscienza del paziente), si dovrebbe considerare non lesivo del diritto alla prestazione del consenso, nè sul piano contrattuale, dove il rapporto si iscriva in tale cornice, nè su quello extracontrattuale, purchè la scelta terapeutica fosse l’unica possibile per ovviare alla patologia esistente e l’intervento sia poi riuscito in tal senso. L’attività di ingerenza del medico sulla persona del paziente risulterebbe lecita sul piano civilistico sempre in ragione della sua utilità per la salute.

p.2.6. Si ricorda, al riguardo che l’origine e, quindi, la doverosa dimensione funzionale e le implicazioni del consenso informato bene sono state delineate da Cass. n. 21748 del 2007, nel senso che: “Il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario: senza il consenso informato l’intervento del medico è, al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità, sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente; la pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi. Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma – atteso il principio personalistico che anima la nostra Costituzione (la quale vede nella persona umana un valore etico in sè e guarda al limite del “rispetto della persona umana” in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofìche che orientano le sue determinazioni volitive) e la nuova dimensione che ha assunto la salute (non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sè, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza) – altresì di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale”.

p.2.7. Si rammenta, altresì, che la già citata Cass. n. 2847 del 2010, ha avuto modo di rimarcare innanzitutto che, “secondo la definizione della Corte costituzionale (sentenza n. 438 del 2008, sub. n. 4 del “Considerato in diritto”) il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 è 32 Cost., i quali stabiliscono rispettivamente che “la libertà personale è inviolabile” e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.

Afferma ancora la Consulta che numerose norme internazionali (che è qui superfluo richiamare ancora una volta) prevedono esplicitamente la necessità del consenso informato del paziente nell’ambito dei trattamenti medici. La diversità tra i due diritti è resa assolutamente palese dalle elementari considerazioni che, pur sussistendo il consenso consapevole, ben può configurarsi responsabilità da lesione della salute se la prestazione terapeutica sia tuttavia inadeguatamente eseguita; e che la lesione del diritto all’autodeterminazione non necessariamente comporta la lesione della salute, come accade quando manchi il consenso ma l’intervento terapeutico sortisca un esito assolutamente positivo (è la fattispecie cui ha avuto riguardo Cass. pen., sez. un., n. 2437 del 2009, concludendo per l’inconfigurabilità del delitto di violenza privata). Nel primo caso il consenso prestato dal paziente è irrilevante, poichè la lesione della salute si ricollega causalmente alla colposa condotta del medico nell’esecuzione della prestazione terapeutica, inesattamente adempiuta dopo la diagnosi. Nel secondo, la mancanza di consenso può assumere rilievo a fini risarcitori, benchè non sussista lesione della salute (cfr. Cass.,nn. 2468/2009) o se la lesione della salute non sia causalmente collegabile alla lesione di quel diritto, quante volte siano configurabili conseguenze pregiudizievoli (di apprezzabile gravità, se integranti un danno non patrimoniale) che siano derivate dalla violazione del diritto fondamentale all’autodeterminazione in se stesso considerato (cfr., con riguardo al caso di danno patrimoniale e non patrimoniale da omessa diagnosi di feto malformato e di conseguente pregiudizio della possibilità per la madre di determinarsi a ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza, la recentissima Cass., n. 13 del 2010 e le ulteriori sentenze ivi richiamate)”.

p.2.8. Sempre la sentenza n. 2847 del 2010 – immediatamente di seguito alla riportata motivazione e con considerazioni che evidenziavano già il profilo strutturale dell’illecito da lesione del diritto al consenso informato, siccome lo si è delineato nei precedenti paragrafi – ha poi, osservato che: “Viene anzitutto in rilievo il caso in cui alla prestazione terapeutica conseguano pregiudizi che il paziente avrebbe alternativamente preferito sopportare nell’ambito di scelte che solo a lui è dato di compere.

Non sarebbe utile a contrastare tale conclusione il riferimento alla prevalenza del bene “vita” o del bene “salute” rispetto ad altri possibili interessi, giacchè una valutazione comparativa degli interessi assume rilievo nell’ambito del diritto quando soggetti diversi siano titolari di interessi confliggenti e sia dunque necessario, in funzione del raggiungimento del fine perseguito, stabilire quale debba prevalere e quale debba rispettivamente recedere o comunque rimanere privo di tutela; un “conflitto” regolabile ab externo è, invece, escluso in radice dalla titolarità di pur contrastanti interessi in capo allo stesso soggetto, al quale soltanto, se capace, compete la scelta di quale tutelare e quale sacrificare. Così, a titolo meramente esemplificativo, non potrebbe a priori negarsi tutela risarcitoria a chi abbia consapevolmente rifiutato una trasfusione di sangue perchè in contrasto con la propria fede religiosa (al caso dei Testimoni di Geova si sono riferite, con soluzioni sostanzialmente opposte, Cass.,nn. 23676/2008 e 4211/2007), quand’anche gli si sia salvata la vita praticandogliela, giacchè egli potrebbe aver preferito non vivere, piuttosto che vivere nello stato determinatosi; così, ancora, non potrebbe in assoluto escludersi la risarcibilità del danno non patrimoniale da acuto o cronico dolore fisico (sul punto cfr. Cass., n. 23846/2008) nel caso in cui la scelta del medico di privilegiare la tutela dell’integrità fisica del paziente o della sua stessa vita, ma a prezzo di sofferenze fisiche che il paziente avrebbe potuto scegliere di non sopportare, sia stata effettuata senza il suo consenso, da acquisire in esito alla rappresentazione più puntuale possibile del dolore prevedibile, col bilanciamento reso necessario dall’esigenza che esso sì a prospettato con modalità idonee a non ingenerare un aprioristico rifiuto dell’atto terapeutico, chirurgico o farmacologico. E nello stesso ambito dovrebbe inquadrarsi il diritto al risarcimento per la lesione derivata da un atto terapeutico che abbia salvaguardato la salute in un campo a discapito di un secondario pregiudizio sotto altro pure apprezzabile aspetto, che non sia stato tuttavia adeguatamente prospettato in funzione di una scelta consapevole del paziente, che la avrebbe in ipotesi compiuta in senso difforme da quello privilegiato dal medico. Viene, in secondo luogo, in rilievo la considerazione del turbamento e della sofferenza che deriva al paziente sottoposto ad atto terapeutico dal verificarsi di conseguenze del tutto inaspettate perchè non prospettate e, anche per questo, più difficilmente accettate.

L’informazione cui il medico è tenuto in vista dell’espressione del consenso del paziente vale anche, ove il consenso sia prestato, a determinare nel paziente l’accettazione di quel che di non gradito può avvenire, in una sorta di condivisione della stessa speranza del medico che tutto vada bene; e che non si verifichi quanto di male potrebbe capitare, perchè inevitabile. Il paziente che sia stato messo in questa condizione – la quale integra un momento saliente della necessaria “alleanza terapeutica” col medico – accetta preventivamente l’esito sgradevole e, se questo si verifica, avrà anche una minore propensione ad incolpare il medico. Se tuttavia lo facesse, il medico non sarebbe tenuto a risarcirgli alcun danno sotto l’aspetto del difetto di informazione (salva la sua possibile responsabilità per avere, per qualunque ragione, mal diagnosticato o mal suggerito o male operato; ma si tratterebbe – come si è già chiarito – di un aspetto del tutto diverso, implicante una “colpa” collegata all’esecuzione della prestazione successiva). Ma se il paziente non sia stato convenientemente informato, quella condizione di spirito è inevitabilmente destinata a realizzarsi, ingenerando manifestazioni di turbamento di intensità ovviamente correlata alla gravità delle conseguente verificatesi e non prospettate come possibili. Ed è appunto questo il danno non patrimoniale che, nella prevalenza dei casi, costituisce l’effetto del mancato rispetto dell’obbligo di informare il paziente.

Condizione di risarcibilità di tale tipo di danno non patrimoniale è che esso varchi la soglia della gravità dell’offesa secondo i canoni delineati dalle sentenze delle Sezioni unite nn. da 26972 a 26974 del 2008, con le quali s’è stabilito che il diritto deve essere inciso oltre un certo livello minimo di tollerabilità, da determinarsi dal giudice nel bilanciamento tra principio di solidarietà e di tolleranza secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico. Non pare possibile offrire più specifiche indicazioni”.

p.2.9. Ancora di recente si possono ricordare come mosse dalla stessa logica le considerazioni di Cass. n. 19731 del 2014.

p.2.10. Il Collegio osserva che la prospettazione della Corte aquilana – al di là della mancata evocazione di tale principio – non potrebbe apparire corretta neppure se la si considerasse applicativa del principio della c.d. compensatici lucri cumdamno: ancorchè esso, secondo l’opinione preferibile trovi applicazione unicamente quando sia il pregiudizio che l’incremento patrimoniale siano conseguenza del medesimo fatto illecito (Cass. n. 20548 del 2014), nella specie, pur essendo il “lucro” scaturito dall’esecuzione dell’intervento senza consenso informato provocato in senso lato dallo stesso illecito derivante dalla mancata acquisizione del consenso (siccome risultante dalla condotta di omessa acquisizione del consenso informato seguita dall’esecuzione dell’intervento), si è veduto come esso non sia in alcun modo idoneo a compensare, cioè a rendere irrilevante, il danno conseguenza derivato dalla mancata acquisizione del consenso informato.

E la ragione è palese: il bene tutelato con riferimento al procedere senza acquisizione del consenso informato è la libertà di autodeterminazione circa il proprio stato psico-fisica. Quello tutelato con riferimento all’esecuzione dell’attività medica è la salute, cioè la condizione psico-fisica del soggetto come tale. Se i beni tutelati sono diversi la compensazione non può operare, ma semmai l’esito favorevole sulla salute verrà in evidenza ai fini di liquidare il danno derivato dalla lesione del diritto al consenso informato: nell’operazione di stima del danno non patrimoniale sofferto (tali sono i danni conseguenza da lesione del diritto all’autodeterminazione) si terrà conto dell’incidenza sulla salute dell’intervento eseguito. Mentre, se l’intervento non è stato risolutivo o è stato in parte inutilmente demolitorio o è stato addirittura dannoso ed inutile, è palese che, essendo leso anche il diritto alla salute del paziente, esso si configurerà come ulteriore danno conseguenza e la stima sarà diversa. Nuovamente si rinvia alla riportata motivazione di Cass. n. 2847 del 2010.

p.2.11. deve, dunque, ribadirsi che la Corte aquilana si è posta in un’ottica di individuazione del significato del diritto al consenso informato, che ha totalmente pretermesso la considerazione della sua fonte, della sua struttura e delle sue implicazioni, siccome emergenti sia dalla giurisprudenza di questa Corte innanzi ricordata, sia dai dieta del Giudice delle Leggi, sia dai rilievi che si sono svolti nei precedenti paragrafi 2.4. e ss.

p.2.12. In particolare, nel caso di specie, fermo che si è al di fuori del carattere di urgenza dell’intervento, che rendesse impossibile acquisirne il consenso, è stata negata alla ricorrente:

aa) innanzitutto la possibilità di autodeterminarsi e, quindi, di decidere se sottoporsi all’intervento estensivo con le sue conseguenze sulla sua funzionalità fisica oppure, posta nella prospettiva di subire la progressione del tumore negli organi che poi le sono stati asportati e le conseguenze di essa, di subirle;

bb) in secondo luogo la possibilità di compiere tale scelta in modo meditato;

cc) in terzo luogo di compierla sentendo altre strutture mediche;

dd) in quarto luogo di eventualmente “abituarsi”, proprio in dipendenza dei risultati acquisiti nello spazio temporale dello spatiumdeliberandi che le è stato negato, all’idea di dover subire gli interventi demolitori poi eseguiti e, quindi, di acconsentirli.

Si aggiunga che, se fosse stata informata ed avesse fruito delle possibilità appena descritte, la medesima avrebbe evitato l’impatto certamente doloroso in termini psichici e psicologici della percezione a sorpresa, all’esito dell’intervento, delle conseguenze demolitone dello stesso e della loro incidenza su una serie di funzionalità fisiche, nonchè lo stato conseguente di ansia e incertezza derivante dalla voglia di verificare se l’intervento era necessario che non a caso l’ha portata a recarsi all’estero presso alto nosocomio in tempi immediatamente successivi all’esecuzione dell’intervento dopo aver rifiutato la terapia chemioterapica. E’ palese che il patimento psichico e psicologico così sofferto non si sarebbero verificate se fosse stata messa in condizione di sapere e, quindi, di decidere consapevolmente.

p.2.13. Si deve, a questo punto esaminare la censura rivolta correttamente alla motivazione aggiuntiva ed autonomamente sufficiente con cui la Corte territoriale, dopo aver dato per scontato che il consenso non fosse stato prestato ed avere erroneamente ritenuto che la sua mancata assicurazione fosse stata irrilevante, si è posa invece nell’ottica che esso invece fosse stato dato come dalla dichiarazione del 23 novembre 1995.

La censura è fondata.

Del tutto priva di fondamento giuridico e in fatto è la motivazione con cui la Corte territoriale ha ritenuto che l’estensione dell’intervento fosse stata assentita mediante la generica dichiarazione della D.S., dopo l’autorizzazione dell’intervento chirurgico di asportazione della cisti ovarica destra, del seguente tenore: “Acconsente, inoltre, ad un’eventuale modifica del suddetto intervento qualora ciò fosse necessario per la tutela della sua salute”.

L’assoluta indeterminatezza di tale manifestazione di consenso rende la dichiarazione del tutto inidonea ad assumere il carattere di dichiarazione di consenso informato, atteso che il concetto di “modifica necessaria per la salute” della paziente risulta del tutto generico sia quanto al suo termine costituito dalla “modifica”, sia quanto alla sa aggettivazione come “necessaria”, sia quanto allo stesso termine di riferimento funzionale della “salute”.

Infatti, il concetto di modifica può riguardare la stessa tecnica dell’intervento autorizzato non anche l’estensione ad altri organi o parti della persona.

L’aggettivo “necessaria” di riflesso diventa indeterminato anch’esso, oltre ad essere anche del tutto inidoneo sotto il profilo temporale, nel senso che la modifica può essere necessaria ed urgente oppure necessaria ma non urgente e, in questo secondo caso, l’aver fatto esprimere un ipotetico consenso del genere si sarebbe risolto in cattiva esecuzione dell’obbligo di informazione diretto ad assicurare un consenso consapevole ed informato.

Non meno scevro di assoluta genericità fu il riferimento alla salute.

Ne segue che la motivazione sul punto della sentenza impugnata, in quanto ha supposto idoneo un consenso privo di qualsiasi specificità idonea ad evidenziare un consenso consapevole della D.S. alla rilevantissima estensione assunta dall’intervento, dev’essere cassata (sull’esigenza di specificità da ultimo si veda già Cass. n. 367 del 1999 e, da ultimo, Cass. n. 19220 del 2013).

La Corte di rinvio esaminerà pertanto la controversia considerando inesistente il consenso della D.S. alla detta estensione, così come supposto nella precedente motivazione sopra censurata.

Si rileva che all’uopo nemmeno è necessario far leva sul pur esatto ulteriore profilo di censura svolto dalla ricorrente nel senso che comunque, una volta iniziato l’intervento e manifestarsi ad avviso della struttura ospedaliera la necessità di estenderlo come poi si fece, l’estensione non appariva connotata da caratteri di urgenza tali da giustificare che la D.S. non potesse essere resa edotta di quell’avviso.

Il punto sarà valutato ai fini della determinazione del danno da lesione del consenso informato.

p.2.14. La sentenza impugnata è, conseguentemente cassata sia nella parte in cui ha ritenuto che un consenso fosse stato prestato, sia nella parte in cui, pur per il caso che consenso non vi fosse stato, ha escluso che si configurasse un illecito da violazione del diritto al consenso informato della D.S. per il fatto che l’intervento eseguito sulla sua persona si fosse rivelato utile.

La Corte di rinvio deciderà sulla controversia considerando che in alcun modo l’esito favorevole dell’intervento – in disparte il possibile ridimensionamento che ne scaturirà per effetto dell’ulteriore cassazione che conseguirà all’esito dello scrutinio del quinto motivo – può elidere la rilevanza della violazione del diritto al consenso informato del paziente sotto il profilo della sua configurabilità sia come danno evento, sia come danno conseguenza e farà applicazione dei principi emergenti dai precedenti paragrafi 2.4.-2.12.

p.3. Con il terzo motivo si denuncia “violazione degli artt. 2043, 2049 e 2051 c.c.; artt. 2, 13 e 32 Cost., e L. 23 dicembre 1978, n. 833, art. 33, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3″.

Il motivo pone la questione che la D.S., ove fosse stata posta nella condizione di essere informata dello sviluppo che l’intervento avrebbe dovuto avere secondo la struttura sanitaria, non avrebbe assentito all’esecuzione dell’intervento estensivo sia in assoluto sia in senso relativo e, particolarmente, in essa: tale questione no è stata esaminata dalla sentenza impugnata, essendosi posta nel solco di un convincimento erroneo sia circa la prestazione del consenso, sia circa l’irrilevanza della sua mancata prestazione.

Convincimento che si è censurato accogliendo il secondo motivo.

Sarà il giudice di rinvio a dover esaminare se in atti vi era prova che il consenso non sarebbe stato dato, qualora la ricorrente fosse stata informata ed all’uopo tutti gli elementi evidenziati dalla ricorrente nel terzo motivo potranno e dovranno essere considerati, atteso che essi sono rilevanti (in particolare alla stregua degli insegnamenti somministrati da Cass. n. 2847 del 201 nel paragrafo 3.3. della sua motivazione, che non si è riportato sopra).

Si tratta, dunque, di motivo che è inammissibile perchè la questione posta, a seguito della cassazione, dovrà e potrà essere necessariamente esaminata in sede di rinvio.

p.4. Il quarto motivo è dedotto solo in via subordinata e, quindi, resta assorbito.

p.5. Il quinto motivo denuncia “insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, in relazione all’art. 360 c.p.c., n..

Vi si sostiene che la Corte avrebbe fornito una motivazione contraddittoria ed insufficiente sul punto in cui ha affermato che all’esito della biopsia eseguita dal dottor A. tutti gli organi asportati in estensione dell’intervento erano risultati affetti da neoplasia.

Al contrario non lo era l’utero della D.S..

La contraddizione emergerebbe dalla stessa motivazione, là dove essa prima fa affidamento sulle risultanze della detta biopsia, nella quale si escludeva che l’utero fosse interessato da neoplasie e poi afferma, dimenticandosene, che tutti gli organi della paziente asportati con l’estensione dell’intervento erano affetti da neoplasia e, dunque, anche l’utero.

L’insufficienza emergerebbe per la stessa ragione.

p.5.1. Il motivo è fondato.

A pagina 17 la sentenza evoca la diagnosi del 24 novembre 1995 eseguita dal dottor A. sugli organi asportati il giorno precedente e nell’elenco di organi che presentavano a detta del medesimo evidenze neoplasiche non si fa alcun riferimento all’utero della D.S., ma all’ovaio sinistro, ad un nodulo peritoneale, all’ovaio destro, ad un’appendice fibrosa ed al tessuto omentale.

In alcun modo si fa riferimento, nel riferire il contenuto della diagnosi A. all’utero, come rileva esattamente la ricorrente, la quale anzi a pagina 35 del ricorso ha riportato il contenuto della diagnosi dove si legge, oltre l’elenco riassunto dalla motivazione della sentenza, l’affermazione “Assenza di infiltrazioni del corpo e della cervice uterina”.

Ebbene, la sentenza impugnata, alla pagina 21, nel concludere l’esame del primo motivo di appello, afferma invece in modo palesemente contraddittorio che tutti gli organi asportati erano affetti da neoplasia, nominando espressamente anche l’utero.

Evidente è l’assoluta contraddittorietà dell’affermazione e la sentenza impugnata dev’essere casata sul punto i cui ha ritenuto che la biopsia avesse rivelato che anche l’utero della D.S. era affetto da neoplasia, mentre al contrario essa lo escludeva.

Il giudizio di rinvio esaminerà il profilo della pretesa risarcitoria tanto inerente la lesione del diritto al consenso informato, quanto inerente la lesione della salute ipoteticamente riconducibile all’asportazione dell’utero valutando che l’asportazione avvenne in assenza di presenza di neoplasia in atto in detto organo della ricorrente.

6. Conclusivamente sono accolti il secondo ed il quinto motivo. E’ rigettato il primo. Il terzo è dichiarato inammissibile ed il quarto è dichiarato assorbito.

La sentenza è cassata in relazione ai motivi accolti ed il rinvio si ritiene opportuno disporlo alla Corte d’Appello di Roma, piuttosto che a quella che ha emesso la sentenza impugnata.

p.7. Il giudice di rinvio prowederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo. Accoglie il secondo e il quinto motivo e cassa la sentenza impugnata in relazione. Dichiara inammissibile il terzo ed assorbito il quarto. Cassa la sentenza impugnata in relazione e rinvia alla Corte d’Appello di Roma anche per le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile, il 21 gennaio 2015.

Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2015

http://www.cimocampania.it/corte-di-cassazione-civile-intervento-eseguito-senza-consenso-i-benefici-non-compensano-la-perdita-del-diritto-alla-scelta-di-trattamenti-meno-demolitori-sent-n-12205-del-12-06-2015/

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