Colpa medica, consenso informato imperfetto ed effettivo pregiudizio alla salute

Tribunale, Milano, sez. V civile, sentenza 29/03/2005 n° 3520

Il Tribunale di Milano, quinta sezione civile, in persona del Giudice Istruttore, in funzione di Giudice Unico, ha pronunciato la sentenza n.3520/05 (pubblicata il 29.3.2005), con una interessante analisi in merito alla risarcibilità del danno non patrimoniale ed alla necessità che sia provato il pregiudizio alla salute, anche in presenza di un consenso informato “carente”.

Nel caso di specie risultava “ritualmente acquisito agli atti il modulo del consenso informato, sottoscritto dalla paziente prima dell’intervento”, ma è stato chiesto un risarcimento per il mancato consenso informato sulle modalità dell’intervento e sugli effetti collaterali del trattamento farmacologico successivo”.

Il principio di diritto che se ne trae, espresso nella forma più sintetica possibile, è quello secondo cui il consenso prestato per un intervento, poi eseguito con modalità diverse da quelle concordate, pur non essendo “regolare”, nel senso che non può considerarsi idoneo a far ritenere assolto da parte dei medici l’onere di informazione, non da luogo a risarcimento se manca una specifica colpa medica ed un effettivo pregiudizio della salute del paziente.

C’è da dire che l’interesse della decisione sta anche nel fatto che affronta ampiamente il discorso che ruota intorno al fondamento costituzionale, alla necessità, al contenuto, alle indicazioni del consenso informato, con citazione di importanti precedenti giurisprudenziali sull’argomento.

Naturalmente viene accolto pienamente dal Giudice il principio consolidato in giurisprudenza secondo cui il medico non può più intervenire sul paziente senza aver prima acquisito il consenso che non è un atto puramente formale e burocratico, ma è “presupposto indefettibile per un corretto esercizio dell’ars medica.”

Dopo aver richiamato gli articoli della Costituzione (13 e 32) e l’articolo 33 della Legge 23 dicembre 1978, n. 833, sui quali la necessità di acquisire il consenso si fonda, viene chiarito che il diritto del paziente di formulare un consenso informato all’intervento appartiene ai diritti inviolabili della persona, ed è espressione del diritto all’autodeterminazione in ordine a tutte le sfere ed ambiti in cui si svolge la personalità dell’uomo, fino a comprendere anche la consapevole adesione al trattamento sanitario (con legittima facoltà di rifiutare quegli interventi e cure che addirittura possano salvare la vita del soggetto)”.

Viene pure chiarito che “il consenso dev’essere frutto di un rapporto reale e non solo apparente tra medico e paziente, in cui il sanitario è tenuto a raccogliere un’adesione effettiva e partecipata, non solo cartacea, all’intervento. Esso non è dunque un atto puramente formale e burocratico ma è la condizione imprescindibile per trasformare un atto normalmente illecito (la violazione dell’integrità psicofisica) in un atto lecito, fonte appunto di responsabilità”.

Vengono citate alcune sentenze della Cassazione in particolare:

  • Cass. n. 7027/2001 per ricordare come incombe sul medico un preciso obbligo di ottenere il consenso del paziente, dopo averlo preventivamente informato e come l’onere probatorio circa l’assolvimento del dovere di informazione grava sul medico;
  • Cass. n 364/1997 e Cass. n. 10014/1994 in merito al contenuto che deve avere l’informazione e sul fatto che deve essere relativa alla “natura dell’intervento medico e chirurgico, alla sua portata ed estensione, ai rischi, ai risultati conseguibili, alle possibili conseguenze negative, alla possibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso altri interventi e ai rischi di questi ultimi”.

Stante l’onere probatorio circa l’assolvimento del dovere di informazione a carico del medico, chiarisce ancora il Tribunale, “sarà dunque sufficiente la mera allegazione dell’inadempimento da parte del creditore-paziente; graverà, invece, sul convenuto debitore-medico l’onere di fornire la prova dell’avvenuto assolvimento dell’obbligo contrattuale posto a suo carico, secondo i principi generali in materia di onere della prova nell’adempimento delle obbligazioni (recentemente ribaditi dalla Corte di Cassazione a S.U. con sentenza n. 13533/01)”.

E’ interessante esaminare e soffermarsi su alcune motivazioni della decisione (estrapolate e di seguito riportate) per capire come il Giudice arriva alla conclusione sopra anticipata che non può parlarsi di lesione del diritto di autodeterminazione produttiva di un danno non patrimoniale di entità economica apprezzabile, nelle ipotesi in cui il consenso informato sia stato dato per un intervento eseguito con modalità diverse da quelle previste e venga effettuato un trattamento farmacologico successivo (Kessar) non specificato sulla richiesta di consenso, con possibili effetti collaterali del farmaco sul paziente.

Occorre considerare che nel caso deciso risultava acquisito agli atti il modulo del consenso informato, sottoscritto dalla paziente prima dell’intervento.

Ne viene riportato in sentenza il testo per specificare che il modulo, così come formulato, non poteva considerarsi in alcun modo idoneo a ritenere assolto da parte dei medici l’onere di informazione.

Infatti lo stesso risultava “sintetico e non dettagliato”, e indicava solo genericamente che la paziente sarebbe stata sottoposta ad un intervento chirurgico.

In esso non veniva indicato affatto quale intervento sarebbe stato eseguito e, “pur facendosi menzione dei benefici, dei rischi, delle procedure addizionali o diverse” che si potevano rendere necessarie a giudizio del medico, non si precisava quali potevano essere i rischi specifici, “ovvero le diverse possibili procedure, di tal ché, non può ritenersi che il paziente, anche solo dalla semplice lettura di tale modulo, possa avere compreso effettivamente le modalità ed i rischi connessi all’intervento, in modo da esercitare consapevolmente il proprio diritto di auto determinarsi in vista dello stesso”.

Per sintetizzare, nel caso di specie non è stato ritenuto assolto l’onere gravante sui medici di informazione in relazione allo specifico intervento per cui la mancata richiesta del consenso è stata valutata “quale autonoma fonte di responsabilità in capo ai medici per lesione del citato diritto costituzionalmente protetto di autodeterminazione”.

È stato quindi acclarato l’inadempimento da parte dei medici convenuti e della struttura sanitaria circa l’obbligazione relativa al consenso informato.

Ritiene questo giudice”, si legge ancora sulla sentenza, “che l’inadempimento dell’obbligo di informazione da parte del medico incida in via diretta sul diritto della paziente all’autodeterminazione in ordine alle scelte che attengono alla propria salute e che tale lesione vada pertanto riconosciuta autonomamente rispetto alla lesione del diritto alla salute, che nella specie non si è verificata”.

Tale lesione, viene aggiunto, rientra nella previsione di cui all’art. 2059 c.c., volta a ricomprendere ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona, secondo la recente interpretazione della Cassazione (sentenze n. 8827/03 e n. 8828/03) e della Consulta (sentenza n. 233/03)”.

Pertanto, “secondo l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., oltre al danno morale soggettivo (quale transeunte perturbamento dell’animo) e al danno biologico (quale lesione dell’integrità psicofisica della persona) dev’essere risarcito anche il danno derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale, nei quali rientra il diritto di autodeterminazione”.

A questo punto il giudice si chiede: “Ma qual è il danno-conseguenza risarcibile?”

La risposta è quella secondo cui “Alla comprovata lesione dell’interesse di rango costituzionale relativo all’autodeterminazione non consegue ipso iure un danno risarcibile”.

Con la conclusione che non è possibile “ritenere che il danno lamentato dalla paziente sia in re ipsa, nel senso che sarebbe coincidente con la lesione dell’interesse protetto (Cass. n. 8827/03), essendo invece necessaria l’allegazione e la prova dell’entità dello stesso che deve comunque essere apprezzabile per poter dare luogo a risarcimento”e che “ai fini di una corretta liquidazione del danno in esame e al fine di contemperare i principi che presiedono all’onere di allegazione e di prova con l’esigenza di evitare duplicazioni ed automatismi risarcitori, appare essenziale distinguere le ipotesi in cui la lesione del diritto all’autodeterminazione si affianchi o meno alla lesione del diritto alla salute, discriminando le ipotesi in cui si ravvisi, in pari tempo, colpa medica”.

Vengono a questo punto prese in considerazione una serie di interessanti ipotesi “tutte comunque caratterizzate da acclarato inadempimento dell’obbligo di informazione in capo al sanitario”.

La fattispecie sulla quale si stava decidendo è stata indicata come “ipotesi c)” riguardante il caso in cui, “all’esito dell’intervento cui non era stato dato il consenso informato da parte del paziente, in assenza di colpa medica, non consegua alcun pregiudizio alla salute dello stesso, anzi, addirittura, consegua un miglioramento delle sue condizioni psicofisiche (si pensi all’ipotesi in cui l’omessa esecuzione dell’intervento non consentito avrebbe cagionato la morte o una grave menomazione del soggetto)”.

In tale particolare caso “non sussiste in radice la possibilità di ravvisare alcun danno biologico”.

Individuate le ipotesi statisticamente più ricorrenti, “per determinare i criteri di risarcimento del danno-conseguenza, è opportuno richiamare i principi già adottati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 184/86, per applicarli all’ipotesi in cui sia stato leso il diritto costituzionalmente protetto di autodeterminazione: il criterio di liquidazione dev’essere, per un verso, egualitario ed uniforme (al fine di evitare che, a parità di casi analoghi il giudice liquidi importi notevolmente differenti) e, per altro verso, elastico e flessibile, per adeguare la liquidazione del danno alle peculiarità della fattispecie concreta”.

Nel caso come quello deciso (ipotesi sub c)), dove non c’è alcuna lesione del bene salute del soggetto, “il giudice non può comunque sottrarsi all’obbligo di motivazione, ai fini della liquidazione del danno, a pena di nullità della sentenza per omessa o insufficiente motivazione e per violazione di legge in relazione agli artt. 1223 e 2059 c.c”; ma per quanto riguarda la liquidazione del danno “il giudice può ricorrere ad un criterio di equità pura, che regoli cioè, solo la fattispecie concreta in esame (criterio generalmente adottato agli albori del danno biologico), ma che può tuttavia tradursi in apodittiche e (ancora una volta) immotivate statuizioni”.

Pertanto il giudice, in tutte le ipotesi in cui sia accertata la lesione del diritto di autodeterminazione, deve esattamente individuare sia il danno risarcibile che un congruo criterio risarcitorio (ciò vale vieppiù nell’ipotesi sub c). Sarà poi compito della cultura giuridica l’esame dei motivati precedenti giurisprudenziali, da cui poter trarre non semplici automatismi tabellari, ma più univoci criteri direttivi nella liquidazione del danno non patrimoniale in esame.

In definitiva, anche in relazione al danno-conseguenza risarcibile in esame, devono applicarsi le regole ed i principi sull’onere di allegazione e prova del danno subito, selezionando le conseguenze risarcibili dell’illecito, rispetto a quelle non risarcibili, in base ai criteri della causalità giuridica: l’art. 1223 c.c. (richiamato dall’art. 2056 c.c.) limita il risarcimento ai soli danni che siano conseguenza immediata e diretta dell’illecito, ma viene inteso nel senso che la risarcibilità dev’essere estesa anche ai danni mediati e indiretti, purché costituiscano effetti normali del fatto illecito, secondo il criterio della cosiddetta regolarità causale (Cass. S.U. n. 9556/02)”.

Anche chi si ritiene leso nel proprio diritto ad autodeterminarsi non può sottrarsi alla prova delle circostanze rilevanti che giustifichino il risarcimento del danno ex art. 1223 e 2059 c.c..

Viene citata a questo punto una decisione della Corte Costituzionale (Corte Costituzionale n. 372/94) dove si è stabilito che “è sempre necessaria la prova dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere commisurato”.

La Suprema Corte ha ribadito che ogni qualvolta sia provata la lesione di un interesse costituzionale della persona devono essere risarciti il danno morale soggettivo (pecunia doloris o patema d’animo) e i pregiudizi ulteriori e diversi, derivanti da tale lesione, nei quali rientra il diritto di autodeterminazione”.

È dunque onere della parte provare che, dalla lesione – nella specie dal mancato assolvimento dell’obbligo di informazione – siano derivate conseguenze pregiudizievoli di cui si chiede il ristoro e tali conseguenze”

Conseguenze pregiudizievoli che “in relazione alle varie fattispecie, potranno avere diversa ampiezza e consistenza, in termini di intensità e protrazione nel tempo”.

E’ pur vero, fa rilevare il Tribunale, che la Cassazione (Cass. n. 8827/2003) ha stabilito che trattandosi di “pregiudizio che si proietta nel futuro (diversamente dal danno morale soggettivo contingente) […] sarà consentito il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni sulla base degli elementi obiettivi che sarà onere del danneggiato fornire” , ciò non toglie che il danno in questione deve essere “allegato e provato”.

Dunque, la conclusione deve essere quella che “anche nella fattispecie concreta gravava sull’attrice un preciso onere di allegazione e di prova”.

In base ad una serie di argomentazioni il Tribunale giunge alla conclusione che “la lesione dell’interesse protetto, ovvero del diritto di autodeterminazione, abbia dato luogo ad un danno non patrimoniale – inteso sia come danno morale soggettivo (pretium doloris della lesione subita) che quale pregiudizio ulteriore e diverso (derivante dalla predetta lesione) – ma che tale danno sia ontologicamente trascurabile e, comunque, di entità economica non apprezzabile”.

Sul convincimento del giudice di non risarcibilità del danno hanno influito le circostanze che di seguito si riportano testualmente:

  • in primo luogo, non è stata accertata colpa medica e si è verificato un indubbio miglioramento delle condizioni di salute della paziente, che, affetta da carcinoma mammario, è poi definitivamente guarita a seguito dell’intervento. La fattispecie concreta rientra dunque nella menzionata ipotesi sub c);
  • in secondo luogo, l’intervento praticato fu comunque eseguito secondo la tecnica operatoria più accreditata all’epoca dello stesso e dunque l’astratto diritto dell’attrice di autodeterminarsi in vista di un possibile intervento “diverso” e meno invasivo non può trovare tutela in mancanza della stessa possibilità che, all’epoca dei fatti, fosse praticato un intervento chirurgico alternativo a quello posto in essere;
  • in terzo luogo, nella fattispecie concreta non sussiste, neppure in astratto, ipotesi di reato (Cass. n. 8827/03; Corte Cost. n. 233/03). Peraltro la denuncia di reato sporta dall’attrice il 9/03/2000 alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Genova nei confronti dei medici convenuti si è risolta in una archiviazione del procedimento, in quanto il G.I.P ha ritenuto di non ravvisare nei fatti denunciati gli estremi di alcun reato, anche sulla base della considerazione “che comunque esiste una sproporzione tra il male lamentato ed il male che affliggeva la signora T. e che occorreva fronteggiare ad ogni costo”;
  • in quarto luogo, la circostanza che, a fronte della lesione del diritto di autodeterminazione della paziente – diritto che attiene alla sfera più intima e intangibile della persona umana, particolarmente vulnerabile soprattutto in occasione di eventi drammatici, quali quello che hanno colpito l’attrice – ella nel 1998, in epoca ampiamente successiva all’intervento per cui è causa – allorché aveva certamente già acquisito la piena consapevolezza delle modalità dell’intervento che aveva subito – abbia nuovamente accordato la sua fiducia all’I.E.O., per curare altre patologie da cui veniva affetta, e si sia anche sottoposta alle visite di controllo al seno, determinandosi solo nel 2001 ad agire in giudizio contro lo stesso Istituto;
  • in quinto luogo, quanto ai pregiudizi diversi allegati dall’attrice (pirosi, orticaria, vasculite, iperplasie endometriali), alcuni dei quali di lieve entità (quali le iperplasie endometriali, sub doc. 5), derivanti dall’uso del Kessar, deve precisarsi che, come illustrato nella relazione peritale “il trattamento adiuvante con Tamoxifene 20 mg die per cinque anni, rappresenta la terapia standard per donne con tumori alla mammella con recettori positivi. La terapia adiuvante può infatti prevenire le recidive e migliorare la sopravvivenza delle donne operate e risultate con recettori positivi”. È ben vero che i benefici del Tamoxifene devono essere considerati alla luce dei suoi effetti collaterali ma, come riportato nella letteratura indicata nella relazione tecnica, in generale gli effetti collaterali del farmaco sono di gran lunga superati dai vantaggi, pertanto la “comprovata efficacia del Tamoxifene giustifica il suo uso anche a fronte di tali effetti sfavorevoli”. Quanto agli effetti collaterali, infatti, essi “sono di modestissima portata, ampiamente rientranti nelle eventualità attese durante tale terapia; essi, come ben comprensibile, non sono paragonabili per rischio e compromissione a quelli, più comunemente segnalati, di aumento delle possibilità di tromboembolismo venoso e di tumori dell’endometrio. La comprovata efficacia del Tamoxifene giustifica il suo uso anche a fronte di tali effetti sfavorevoli”. Inoltre tali effetti collaterali sono cessati con la sospensione del farmaco ed, in ogni caso, come precisano ancora i CTU “seguendo un itinerario decisionale razionale scientificamente fondato, il referto di lieve iperplasia endometriale (10 mm) segnato all’ecografia del 13-12-96 in donna in età post menopausale [nata il 7.6.1930], con genitali interni in fase involutiva e senza sintomi, non rappresentava un riscontro che giustificasse la sospensione del farmaco la quale, peraltro, si realizzò dopo sei mesi di trattamento”;
  • in sesto luogo, infine, l’attrice – affetta da carcinoma alla mammella e comunque sottoposta ad intervento chirurgico di tipo conservativo (quadrantectomia) e non al più devastante e demolitivi intervento di mastectomia – non ha mai allegato anche la remota possibilità, a fronte del rischio probabile della vita, di rifiutare l’intervento, se le fosse stato prospettato che, oltre all’asportazione del solo linfonodo sentinella, le sarebbero stati asportati tutti i linfonodi. Sarebbe stato onere dell’attrice (se non provare che avrebbe fatto una scelta diversa) quanto meno allegare circostanze che rendessero plausibile la possibilità che, se adeguatamente informata, ella avrebbe rifiutato l’intervento.

In definitiva, il Tribunale ha ritenuto di rigettare integralmente tutte le domande proposte dall’attrice che con l’atto introduttivo del giudizio aveva convenuto l’Istituto Europeo di Oncologia – in persona del legale rappresentante pro-tempore – i medici dello stesso, nonché la Pharmacia & Upjohn s.p.a. (diventata nelle more del giudizio Pharmacia Italia s.p.a.).

Per quanto riguarda il trattamento farmacologico successivo (Kessar), non specificato sulla richiesta di consenso, con una serie di motivazioni che qui per brevità si omettono, il Tribunale ha ritenuto destituite di fondamento le doglianze in relazione alle responsabilità della Pharmacia Italia s.p.a., che secondo quanto sostenuto dall’attrice avrebbe omesso di inserire informazioni essenziali sugli effetti collaterali del Kessar, non adeguatamente riportate sul foglietto illustrativo allegato al medicinale.

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Altalex, 4 maggio 2005. Nota di Giuseppe Mommo

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