Cassazione. Confermata condanna per omicidio colposo a infermiere che aveva dato un codice verde anziché giallo al pronto soccorso

Un paziente con un infarto in corso era stato trasportato al pronto soccorso da un’ambulanza dove era stato assegnato un codice giallo mentre all’arrivo al pronto soccorso l’infermiere del triage aveva attribuito un codice verde. Il paziente è poi deceduto. Contestata anche la mancata considerazione della familiarità, il padre era già morto per infarto.

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02 maggio 2017-

Premessa
Ennesima sentenza della Cassazione (IV sezione penale, sentenza 10 aprile 2017, n. 18100) di riconoscimento di responsabilità inerente l’operato di un infermiere al triage del pronto soccorso dove viene in essere, ancora una volta, la sottovalutazione del codice di triage – verde in luogo di  giallo – e di tutto quello che ne consegue in seguito alla sottovalutazione del codice colore.
 
Il paziente decede in seguito al mancato trattamento al pronto soccorso.
Questa volta troviamo un elemento di novità relativo a una ulteriore sottovalutazione che risulta nuova rispetto ai precedenti: la sottovalutazione della familiarità risultante dall’anamnesi.

Fatto e diritto
Paziente con un infarto in corso trasportato al pronto soccorso da un’ambulanza dove era stato assegnato un codice giallo mentre all’arrivo al pronto soccorso l’infermiere del triage attribuisce al paziente un codice verde.
 
All’infermiere del pronto soccorso si contesta, oltre all’errata attribuzione del codice:
1) L’incompleta compilazione della scheda di accettazione dove si è trascurata la mancata considerazione della familiarità (dall’anamnesi effettuata dal personale dell’ambulanza risultava la morte per infarto del padre  del paziente);

2) la mancata effettuazione di un “esame” – verosimilmente dell’esame obiettivo e dell’elettrocardiogramma – del paziente secondo le “linee guida del triage infermieristico”;
3) l’omessa rivalutazione del paziente per oltre due ore.
 
In pratica un paziente con un infarto in corso viene accettato al pronto soccorso dove per oltre due ore non riceve “alcun tipo di cura”.
La difesa dell’infermiere si è incentrata sulla contestazione della causalità del ritardo – “i tempi di attesa non hanno inciso sulla situazione clinica” – basata sui referti autoptici che indicavano un infarto insorto da “pochissimo tempo” e quindi non precedente all’ingresso al pronto soccorso e sull’iperafflusso al pronto soccorso, in quanto ha sostenuto che in quel periodo di tempo al pronto soccorso “giunse un numero sproporzionato di persone”.
 
La Suprema Corte conferma sia la violazione delle linee guida che le “regole di comune diligenza e perizia richieste agli infermieri professionali addetti al Pronto Soccorso, tenuto conto dei sintomi mostrati dal paziente (perdita di conoscenza; incontinenza urinaria) e della acquisita anamnesi familiare”. E’ proprio il punto sulla familiarità che viene in luce con grande evidenza in questa sentenza e che viene ribadito dai supremi giudici.
 
E’ la prima volta, quanto meno che si ricordi, che viene posto in essere, in una sentenza della Suprema Corte la problematica relativa alla “familiarità” come una delle gravi negligenze poste in essere dal personale infermieristico. La familiarità attiene all’anamnesi che viene ricondotta, tradizionalmente e storicamente, alla competenza medica. Anche il termine stesso non viene sovente usato nel mondo diverso da quello medico: lo stesso mondo infermieristico preferisce spesso parlare di “raccolta dati”. Ebbene per i giudici della Cassazione uno degli elementi della colpa infermieristica, in questo caso, è proprio la sottovalutazione di questo aspetto dell’anamnesi. Ripetiamo: non ricordiamo precedenti sul punto.
 
Non nuovo invece è il problema della contestazione del sovraffollamento del pronto soccorso come richiesta di esimente sull’errore. Avevamo già commentato i precedenti orientamenti della Corte (IV sezione penale, sentenza 1 ottobre 2014, n. 11601) che non aveva riconosciuto l’iperaffllusso al pronto soccorso come scriminante per l’errore di attribuzione del codice e per la mancata rivalutazione.
 
Anche nel precedente caso il problema era il decesso del paziente giunto al pronto soccorso con un infarto del miocardio. In quel caso la Cassazione aveva considerato non sufficiente l’affermazione dell’iperafflusso operando un controllo reale degli accessi e una eventuale ricognizione del personale presente non solo al pronto soccorso, ma nell’intero ospedale.
 
In questo caso la Cassazione rileva che “le condizioni di sovraffollamento della struttura sanitaria, il giorno del fatto, non autorizzavano altrimenti la declassificazione del triage rispetto ai codici di priorità gialli, che afferiscono a patologie degne di particolare attenzione”.
 
Difficile non concordare con i supremi giudici che affermano, in questo caso, verità di buon senso. L’emergenza clinica non differisce in relazione alle condizioni organizzative e di impegno a cui è sottoposto il pronto soccorso. Vero è anche che nelle attuali condizioni di forte sofferenza dovute all’eccessivo numero di accessi al pronto soccorso le vittime rischiano di essere, oltre agli inconsapevoli pazienti, proprio tutti gli operatori del pronto soccorso che, come è noto, sono a loro volta anche ulteriori vittime di episodi di intolleranza e violenza.
 
Sulla causalità la Corte specifica che con la attribuzione di un corretto codice di priorità, secondo le indicazioni delle linee guida, ci sarebbe stata l’effettuazione di un “elettrocardiogramma entro trenta minuti” che avrebbe consentito di “intraprendere utilmente il corretto percorso diagnostico e terapeutico”.
 
Sussiste quindi il nesso di causa tra il comportamento omissivo dell’infermiere e la morte del paziente che può essere affermata, vista l’assenza di controlli e terapie durante il suo periodo presso l’astanteria del pronto soccorso. Dal punto di vista controfattuale quindi la corretta attribuzione del codice di triage avrebbe comportato un diverso esito delle sorti del paziente.
 
Nella sentenza non si opera alcun riferimento all’esimente per l’osservanza delle linee guida prevista dal decreto Balduzzi, né tanto meno, a quella prevista dalla recentissima legge “Gelli” in relazione all’osservanza delle raccomandazioni previste dalle linee guida.
 
Questo lo si deve, verosimilmente in carenza di altre informazioni, alla non vigenza del decreto Balduzzi al momento della commissione del fatto. Lo si desume dall’annullamento della sentenza della Corte di appello per avvenuta prescrizione.
 
Conclusioni
Ci sarebbe da domandarsi se l’esercizio professionale e, conseguentemente, l’organizzazione in pronto soccorso debbano essere rioerientati alla luce delle recenti innovazioni legislative introdotte dalla legge Gelli e se il ruolo delle linee guida di società scientifiche  e associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie possa anche vicariare l’assenza di normative più chiare e definite nel rapporto tra le diverse professioni sanitarie.
 
A prima vista  dovremmo dare una risposta negativa a questo interrogativo stante la diversa natura delle linee guida rispetto a ogni qualsivoglia atto di regolamentazione dell’esercizio professionale.
 
Rimane il dubbio di quale debba essere l’atteggiamento del professionista a fronte di linee guida sconfinanti il tradizionale ambito scientifico e che vadano a lambire l’ambito di esercizio professionale.
 
In altre parole se una linea guida che attribuisca la completa responsabilità infermieristica in ordine all’anamnesi del paziente debba o meno considerarsi lecita.
 
La presente sentenza della Cassazione, pur non intervenendo sulle questioni di legittimità, ma limitandosi a quelle di responsabilità, sembra dare una risposta positiva.
 
Luca Benci – Giurista 

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