L’evoluzione della “colpa infermieristica”. Dalle disattenzioni ai reati. Come e perché?

Se errare è umano, non dovrebbe esserlo per l’infermiere!

L’infermiere affrontando un lungo cammino dalla sua nascita, non subito, purtroppo, come figura esclusivamente sanitaria, ha superato ostacoli che sembravano insormontabili, che ancora sono disseminati sul percorso. In vero, un sentiero in salita notevolmente ripido, ci ha da sempre accompagnato.

La memoria vaga fino ad un vecchio trascorso, quando eravamo  “deontologicamente spenti”, e il profilo non delineato, in cui  la nostra figura veniva considerata una panacea a tutti i bisogni (compresi quelli sessuali), passando da semplici guardiani (alti e forti per gli “alienati”), fino al semplice “richiamo all’ordine” se ancora non avevamo recepito l’aut-aut del Medico quando vigeva l’obbligo del Mansionario.  Allo stesso modo, su di un binario parallelo, la figura professionale si è trasformata ed evoluta anche per la giurisprudenza, ed è un atto forte che non tutti riescono a digerire. Farebbe, infatti, comodo, restarcene rannicchiati acriticamente su quel vecchio carrello dei farmaci e far assopire la nostra coscienza di “vecchio stampo” al suono di una nenia di ruote cingolanti alle 5 del mattino. Passare le interminabili notti ad allestire fiumi e fiumi di sodio cloruro “infarcito” per la  terapia dei nostri colleghi mattinieri.  Pietrificarci nelle nostre elucubrazioni lavorative e credere che tutto resti immutato nei secoli dei secoli è un passatempo ignobile che potrebbe avvilupparci e distruggere i propositi di evoluzione tanto rincorsi.

Ma pensare ciò sarebbe aberrante, scomodo e denigrante al solo sfiorarlo con la mente.

Purtroppo è ancora all’ordine del giorno: l’immobilità culturale e la fossilizzazione in pratiche e teorie obsolete rappresenta un insidioso rischio nella pratica del nursing, la teoria del “si è sempre fatto così” potrebbe annientarci una lunga e ormai consolidata carriera professionale.

Disattendere la consapevolezza piena del “potere” di investitura responsabile non è più accettabile.

 Noi mutiamo costantemente, la materia infermieristica è in continua evoluzione, l’essenza professionale ribolle come in una galassia primordiale in espansione.

 Mentre discutiamo di demansionamento, di assistenza di base, di scegliere il colore delle maschere da far assumere  all’infermiere ( Physician Assistants ovvero “super-infermiere), la vera natura dello status giuridico di professionista fin qui plasmato esce allo scoperto e diventa, sempre più spesso, protagonista negativo nelle cronache giudiziarie, andando a gravare sul già precario rapporto con la neo investitura di professionista a tutti gli effetti.

Allora la domanda che si fa spazio nella mente ed ìmpera su tutto è: “Meglio prima o adesso?”

“Meglio fare o non fare?” Sono domande impossibili per noi! La risposta ora come ora, e più di prima è una sola: “Dobbiamo fare tutto e bene, sempre!”.

L’infermiere è un professionista sanitario, chiamato a rispondere, oggi come non  mai, alle sempre più crescenti domande di salute e di benessere delle persone, con risposte mirate ed appropriate. Il suo apporto è essenziale nel panorama sanitario, ed si manifesta indiscutibilmente nell’equipe multidisciplinare.

Il principio specifico sovrastante indiscutibilmente assunto è quello di protezione, la c.d. “posizione di garanzia”, più volte assodata in ambito giudiziario[1], assolutamente autonoma rispetto a quella del medico, nella quale l’attore infermiere si trova ad agire.

La nobiltà d’intenti che deve continuamente sospingere il nostro agire, corrisponde all’ottica positiva. La volontà dell’azione deve poter perseguire sempre, cioè, la salvaguardia della vita, della salute del paziente che a noi si affida, della sua incolumità, dall’inizio alla fine del turno[2], abbandonando il concetto di “timore del giudicante”:  “Faccio questo perchè me lo impone la Legge…Non vorrei dover rispondere davanti ad un Giudice!..”

Quindi, la positività nell’agire deve rappresentarsi ex ante, a priori, con un’attività già predisposta alla protezione da un punto di vista olistico del termine, tralasciando la spinta negativa (ottica negativa) che appare muovere un determinato agito, ex post, in relazione al timore di colpa.

Ma il concetto è ancora labile e aleatorio per trovare conferma, è un obiettivo che, anche se condiviso e scontato per gerarchie superiori, trova difficoltà sul vero campo d’azione.

Guardando al passato, di condanne vere e proprie, se consideriamo la responsabilità nell’agire professionale seguendo un certo archetipo della disciplina di appartenenza, non possiamo parlare, non essendo ancora attivata e conclusa l’evoluzione normativa di autonomia, competenza e responsabilità.

“Anticamente”, l’infermiere veniva “punito” se durante il suo turno si lasciava sfuggire qualche paziente manicomiale, linea di condotta simile che ha subito nel moderno concetto di “presa in carico”, il beneficio dell’oggettività, toccando due aspetti essenziali esimenti per il grado di colpa, quali la prevedibilità e la prevenibilità: valutando il grado di autosufficienza e di autodeterminazione del paziente, e adottando tutte le misure necessarie.

Una recente ricerca[3] relativa ai reati dell’infermiere condotta tra il 2016 e il 2017, su sentenze pronunciate tra il 2005 e il 2016, tramite la consultazione delle banche dati giuridiche “De Jure” ed “Altalex” e dell’archivio ufficiale della Corte di Cassazione: “SentenzeWeb”, ha evidenziato 1051 risultati di reato compiuto dall’infermiere, tra sentenze ed ordinanze.

 Escludendo i risultati nei quali l’infermiere, non ricopriva il ruolo di imputato, ma di persona informata sui fatti, il giudizio per reati commessi non nell’esercizio della sua funzione o non verso i pazienti, si è focalizzata l’attenzione su 120 decisioni civili e penali, di cui 114 sentenze e 6 ordinanze. È stato rilevato il tipo di reato e ricercata la condotta, colposa o dolosa, che l’ha causato.

Quindi, è emerso che in ambito penale il reato più frequente è quello di omicidio colposo (30%), seguito dal peculato (15,5%), dalla violenza sessuale (13,6%) e dalle lesioni personali colpose (10,9%).

 Anche in ambito civile il reato che vede maggiormente coinvolto l’infermiere è quello di omicidio colposo con il 58%. Il restante 42% delle osservazioni è suddiviso in parti uguali tra omicidio volontario, esercizio abusivo di professione, rifiuto/omissione di atti d’ufficio, somministrazione di farmaci guasti e pregiudizio per l’incolumità della persona e della sicurezza.

Nel complesso si arriva a comprendere che, l’omicidio colposo e le lesioni personali colpose rappresentano i reati in cui l’infermiere è ormai più coinvolto e questo è dovuto in particolare ad una negligenza e ad una sottovalutazione non solo dei pazienti e delle situazioni clinico-assistenziali, ma anche del proprio ruolo e della posizione ricoperta.

Si è quindi passati, negli anni, da semplici disattenzioni a veri e propri crimini.

Il ruolo di moderno professionista e del know how raggiunto, dapprima non consolidato, ha definitivamente pervaso a tutti gli effetti le aule dei tribunali, insinuandosi nel pensiero di chi giudica.  Senza alcun dubbio oggi, gli organi preposti vedono in esso una massima espressione di figura sanitaria, portatore di competenza, autonomia e responsabilità, come si può dedurre dalle numerose pronunce, addirittura, anche ribaltando molti giudizi di assoluzione in virtù delle riconosciute e legittimate competenze.

Lo capiscono le Istituzioni tutte, essere noi protagonisti essenziali nel sistema di sicurezza delle cure. Lo percepiscono e pretendono i pazienti che bisognosi a noi si affidano.

Addirittura, lo aveva già capito  Florence Nightingale, che con metodo scientifico e statistico arrivò a mirabolanti affermazioni, approntando l’impalcatura del nostro essere embrionale.

Non altrettanto univoca interpretazione, proviene dai diretti interessati, noi infermieri, che pur consapevoli (o meno) di essere attori primeggianti sulla scena di cura, ci lasciamo travolgere dal nonsense dell’azione, da grottesche mire al di là dell’ostacolo, senza prestare attenzione a dove mettiamo i piedi e le mani.

Se errare è umano, perseverare non di certo dovrebbe appartenere all’infermiere:  noi che dovremmo essere le prime barriere all’errore[4], ma ostinatamente ci troviamo aggrovigliati a pensare ancora, a ciò che sia giusto o meno, incosciamente incatenati al  vecchio anatema del “si è sempre fatto così”.  Sarà imprescindibile comprendere la vera natura del “saper fare”, con le mutate condizioni giuridiche della nostra figura, in modo che la fattibilità delle azioni converga in un’unica strada, quella corretta, l’unica via, guidata dalla conoscenza del contesto, dalla responsabilità critica, da un’autonomia ormai piena.

Perchè dalla disattenzione al reato, è solo un attimo!

Giovanni Trianni Infermiere Legale Forense Ufficio Stampa APSILEF

[1] cfr. art. 40 c.p.:  “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di tutelare equivale a cagionarlo”

[2] cfr.“compito cautelare essenziale” Cass. Pen, sez. IV, 02/01/18, n.5, 2018

[3] M.Ferrario, A. Sponton, L’infermiere e i suoi reati: la responsabilità infermieristica attraverso l’analisi delle sentenze giuridiche, Rivista L’Infermiere N°6 – 2018 , Roma, 2018

[4]J. Reason, L’errore umano, EPC ed., Roma, 2014

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